Il ruolo dell’empatia nell’alfabetizzazione affettiva

Le rôle de l’empathie dans l’alphabétisation affective

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Antonio Bellingreri*

Résumé : C’est assez récemment qu’on a commencé à réfléchir sur l’empathie comme une catégorie pédagogique et éducative. Il s’agit au fond d’une expérience de co-participation; ce n’est pas une dotation spontanée du sujet, mais une vertu qui nécessite une formation de ses dimensions constitutives – ici définies, par l’auteur, instance de vérité, éthique et dialogique. C’est ainsi que l’empathie se révèle être essentielle pour atteindre la connaissance de soi, notamment le style singulier de toute notre vie affective.
L’alphabétisation affective réglé par le code empathique c’est d’abord l’œuvre d’une intelligence verbale pour dénoter la qualité de nos émotions et pour définir leur intensité. L’auteur envisage cette forme de dialogue empathique  comme  la co-élaboration d’un texte de narration autobiographique, avec lequel il s’agit de signifier son propre désir, synthèse de la vie affective. Le dialogue empathique permet enfin de comprendre que toute connaissance de soi c’est un don, que pour se comprendre tout dépend de l’initiative libre d’autrui; c’est un acte spirituel par excellence, il exprime notre vie la plus vive, pour ainsi dire, la plus profonde.

Compendio: Solo di recente è sorta una riflessione sull’empatia come categoria pedagogica ed educativa. È al fondo una esperienza di condivisione dei vissuti delle persone incontrate; non è dote spontanea, ma è una virtù che esige di essere formata nelle sue dimensioni costitutive – in questo saggio definite veritativa, etica e dialogale. Così intesa, essa rivela la sua essenzialità per pervenire alla conoscenza di sé; e in particolare la sua insostituibilità per apprendere a cogliere e a significare il proprio modo di sentire.           
Il lavoro di alfabetizzazione emotiva regolata dal codice empatico è opera innanzitutto di un’intelligenza verbale, per denominare la qualità degli stati emozionali, delle emozioni degli affetti e dei sentimenti, e per definirne l’intensità. L’autore parla di questa forma speciale di dialogo empatico come si trattasse del processo di co-elaborazione di un testo di narrazione autobiografica, nel quale si tratta di significare il proprio costitutivo desiderio d’essere, quanto porta a sintesi tutta la nostra vita affettiva. Dalla riflessione condotta su di esso emerge con evidenza che la conoscenza di sé è un dono, dipende dalla libera iniziativa dell’altro; ed è un atto spirituale in senso eminente, perché implica di far vivere la parte più viva e più profonda di sé.         

Abstract : A reflection on empathy as an educational and pedagogical category is a relatively recent phenomenon. It is, fundamentally, the experience of sharing the life of the people one encounters. It is not a spontaneous gift but a virtue whose essential features need to be formed. In this sense, empathy proves irreplaceable in terms of achieving self-knowledge, particularly in learning how to capture and express one’s own way of feeling.
The emotional alphabetisation regulated by the empathic code chiefly depends on verbal intelligence to define the quality and intensity of emotional states. The author regards this special form of empathic dialogue as the co-elaboration of an autobiographical narrative text in which one’s essential desire to be (a synthesis of one’s affective life) is expressed. Reflecting on this issue leads to the evidence that self-knowledge is a gift depending on the other’s free initiative; it is also an eminently spiritual act in that it enables the most vital and deepest part of the self.

1. Storia dell’empatia

Empatia è un termine che, in modo evidente, deriva dal greco; si resta però un po’ delusi quando si apprende, consultando dei vocabolari della lingua greca classica, che originariamente il suo significato era piuttosto generico, essendo una parola impiegata per denotare l’affetto o una disposizione emotiva favorevole verso persone o cose. La delusione diventa invece sorpresa quando ci si accosta ai lessici delle latinità, perché anche in quelli più completi e rigorosi il lemma non si trova neppure registrato, quasi che mai nessuno vi abbia fatto ricorso. Non penso che se ne debba trarre la conclusione che l’empatia non fosse esperienza sperimentata, che nessuno fosse mai stato capace di immedesimarsi con gli altri; più semplicemente si deve dire che l’Occidente latino non aveva un nome per denotare questo vissuto, cosa che non conferiva ad esso alcuna rilevanza, lo destinava a restare ai margini della vita emotiva e relazionale.

Solo nella seconda metà del XIX secolo, il concetto ha iniziato a circolare nella cultura dotta, divenendo, per alcuni filosofi tedeschi che s’interessavano di teorie estetiche, quello più importante per intendere il senso della contemplazione del bello nell’arte ma anche nella natura. L’empatia era, per loro, il processo che ci consente di ritrovare nelle opere artistiche un senso che i loro autori o noi stessi vi abbiamo trasposto, animandole (Stein 2008). Uno studio sistematico e critico di un tale processo è iniziato però solo nei primi anni del Novecento; hanno cominciato ad interessarsi dell’empatia Freud e, dopo di lui, le diverse scuole psicanalitiche, ma anche gli psicologi delle emozioni, quelli dello sviluppo e gli psicoterapeuti, sia nelle loro riflessioni teoriche sia in quelle più pratiche. Nel secolo scorso la letteratura scientifica su questo tema è diventata imponente, a livello internazionale; sono emersi, in particolare a partire dagli anni Ottanta, da un lato, un paradigma multidimensionale, che vede nell’empatia il concorso di quasi tutti i fattori della vita psichica del soggetto (Eisenberg 1986); dall’altro lato, un paradigma evolutivo, che considera lo sviluppo dell’empatia connettendolo alla storia del soggetto, in particolare alla crescita della sua affettività (Bonino, Lo Coco, Tani 1999).

Il fenomeno invece non è stato ancora molto studiato nella prospettiva della pedagogia, sono poche le ricerche specifiche ad esso dedicate e per lo più pubblicate in questo primo decennio del nuovo secolo. La riflessione pedagogica resta ancora un compito aperto; l’impegno, in dialogo critico con le altre scienze umane applicate allo stesso oggetto di studio, deve essere rivolto a prospettare la funzione in qualche modo insostituibile dell’empatia in ogni azione educativa ben condotta. In particolare, reputo che l’empatia possa essere determinante nella conoscenza di sé da parte di entrambi i soggetti coinvolti in un assetto educativo; e come cercherò di mostrare nella riflessione che qui propongo, fondamentalmente questo accade in ragione del ruolo che essa svolge nel lavoro di alfabetizzazione affettiva (Rossi 2002).

2. Una categoria pedagogica educativa

Gli studi di psicologia definiscono l’empatia come un’emozione speciale con la quale registriamo per così dire la presenza di un altro nel nostro mondo; è una reazione fortemente accogliente, possiamo chiamarla esperienza di risonanza emotiva perché essa ci fa diventare, anche solo per qualche istante, l’ambiente idoneo a captare la voce e a ritrasmettere la eco dei vissuti della persona con cui ci siamo imbattuti. Si tratta di una emozione pertanto, che reca una qualche intelligenza del mondo personale di chi incontriamo; una sintonizzazione immediata che ci fa conoscere l’altro grazie alla condivisione di un suo pensiero o di uno stato emotivo o della motivazione che lo spinge a compier una determinata azione (Bischof-Köhler 1989).

Gli psicologi, e con loro soprattutto gli psicanalisti e gli psicoterapeuti, se ne sono interessati perché vedono nel processo empatico un metodo adeguato nella conduzione della relazione d’aiuto: può offrire al paziente un sostegno affinché ritrovi da sé le energie psichiche necessarie per diventare capaci di vivere un’esistenza umana minimente sana ed equilibrata, riconciliandolo per quanto sia possibile con se stesso. Il soggetto empatizzato infatti, sentendosi compreso e un po’ anche amato attraverso la «introiezione vicariante» – in ragione della condivisione dei suoi vissuti – riceve forza che attiva in lui un’azione trasformante. Giustamente viene sottolineata da parte di questi autori l’importanza di una formazione professionale adeguata, dal momento che la competenza empatica non può improvvisarsi; anche quella che viene chiamata, col linguaggio psicologico, empatia matura non è mai il frutto di una evoluzione spontanea di un soggetto (Kohut 1977).

Tale formazione empatica, è ovvio, viene da loro prospettata perché sia qualità professionale nei workshop terapeutici; diverso è il senso che essa deve avere se si sceglie d’impostare una relazione educativa sull’empatia. La questione è del massimo interesse e il pedagogista può ricevere molte suggestioni dal lavoro empatico svolto in milieu psicoterapeutici. Anche in un ambito educativo in effetti l’essenziale si deve svolgere attraverso un dialogo, nel quale il coinvolgimento tra l’educatore e l’educando è necessario; anche se lo scopo di questa forma di dialogo non è innanzitutto quello di promuovere una certa funzionalità psichica (l’eupsychía), ma è in senso proprio quello di aiutare il soggetto perché la sua mente si disponga a ricercare e a saper riconoscere un bene personale oggettivo, con consapevolezza e compiendo un atto di libertà (l’eúnoia) (Simeone 20112).

Si può esprimere tale tratto caratteristico del dialogo educativo centrato sull’empatia, affermando che in esso questa deve essere intesa e formata proprio come una virtù. È in primo luogo la virtù che l’educatore deve conquistare; ma, poiché con l’educazione si tratta di un’interazione, di un processo che sempre coinvolge entrambi i dialoganti, essa è insieme la virtù che l’educando deve acquisire. Una pedagogia dell’empatia che voglia pensarla come categoria specifica, dotata di autonoma legalità, ci può aiutare a definire le intenzionalità strutturali di una tale virtù, perché essa possa risultare feconda.

Mi pare si possano distinguere tre intenzionalità costitutive dell’empatia autentica. La prima propongo di chiamare veritativa: è lasciar esser l’altro che si ha di fronte nel lavoro educativo, per quello che è, per quello che vuole essere, per quello che può essere e per quello deve essere; è il contrario di un atteggiamento solo proiettivo o possessivo e consente di scoprire l’altro come un altro, un volto e un destino singolare. La seconda invece è un’intenzionalità che può essere definita etica senz’altro: è pervenire a considerare l’altro innanzitutto ed essenzialmente come un bene, dotato di ricchezze e di potenzialità reali che hanno bisogno di essere promosse; è il contrario di un atteggiamento neutrale e di un atteggiamento pregiudiziale, perché l’altro è tenuto come un bene solo per il fatto di essere, senza condizioni.

Da ultimo, la terza intenzionalità costitutiva dell’empatia perché sia empatia vera e propria forse si potrebbe chiamare dialogale in senso eminente: è l’intenzionalità che vede e intende la relazione stessa e il legame che essa crea come essenziale perché il soggetto possa pervenire ad una qualche conoscenza di se stesso. Mi pare sia il punto di maggiore interesse, quello che ci consente poi di intendere il ruolo che questo dialogo empatico può avere per una crescita vitale dell’affettività. Un’analisi fenomenologica attenta infatti ci fa vedere che empatizzare una persona non significa solo conoscerla per quello che essa è; significa anche cogliere, sia pur in uno stato di adombramento, qualche tratto di quello che l’altro può essere e può diventare (Bellingreri 2005).

Comunque, la conoscenza che l’empatizzante ha del soggetto empatizzato non coincide mai con la conoscenza che quest’ultimo ha di se stesso; essa oltrepassa la sfera della sua certezza personale, quanto l’empatizzato sa di sé in modo spontaneo, e può offrirgli una veduta nuova. L’empatizzato pertanto, assumendo la prospettiva di che lo vede “dall’esterno”, modifica la sua prospettiva “interna”; l’esterno, per così dire, diventa interno: la comprensione che l’altro acquista di me a pieno titolo diviene costitutiva di uno sguardo nuovo che conquisto, quasi io riesca a vedere il mio essere visto dall’altro (Von Balthasar 1986).

3. Il codice empatico

Nella sua struttura dinamica, il dialogo educativo centrato sull’empatia può essere descritto come un’interazione che, configurandosi secondo un codice caratteristico, forma un sistema attivo di regolazione relazionale. Possiamo denotare tale codice semplicemente empatico e analizzarlo impiegando il linguaggio della psicologia delle relazioni intersoggettive; distinguendo pertanto almeno tre fattori strutturali che sono sempre presenti in ogni sistema dialogale. Il primo fattore è quello di controllo, che riguarda gli aspetti di autorità e di competenza nella gestione della relazione educativa; il secondo è il fattore emozionale , che comprende i tratti del contatto socio-affettivo dei dialoganti coinvolti nell’interazione; il terzo fattore infine è quello di congruenza o di trasparenza comunicativa, relativo all’autenticità dell’atteggiamento che si assume nel concreto effettuarsi dell’azione educativa, innanzitutto attraverso il linguaggio che viene impiegato (Franta 1982).

I fattori presi in esame permettono di dare una definizione determinata del codice empatico, della struttura e del senso della relazione e della comunicazione segnata dall’empatia, come originale sistema dialogale. In esso infatti il controllo risulta minimo, secondo un criterio che possiamo chiamare di autonomia educativa; la stima verso la persona che si ha di fronte è invece massima, quanto si traduce nella forma di una relazione di amorevolezza educativa; l’autenticità comunicativa da ultimo, grazie soprattutto ad un costante ricorso a io-messaggi, crea un rapporto congruente, secondo uno stile che possiamo chiamare di probità educativa. Ognuno dei tre fattori del sistema contribuisce così, quasi indipendentemente dalle intenzioni dei soggetti coinvolti, all’arricchimento della relazione stessa; sinergicamente, essi concorrono a manifestare l’autorevolezza dell’educatore, grazie al fatto che l’educando è aiutato a riconoscerla come tale (Bellingreri 2013).

È interessante notare che, nel sistema dialogale empatico, il tratto caratterizzante non è costituito dalla scelta dei contenuti sui quali l’interazione è centrata; l’aspetto in ultima istanza determinante del processo d’interpretazione e di significazione è la comunicazione stessa: l’accogliente abbraccio empatico incide sugli stati emozionali dei soggetti coinvolti, disponendoli tanto a conoscersi quanto a operare delle scelte. Naturalmente la comunicazione è sempre mediata dai temi che formano l’oggetto del dialogo; l’interazione educativa empatica però è essenzialmente un clima, un’atmosfera o una piattaforma comune che prepara e rende possibile la comprensione tra i partner. Infine, i contenuti di un dialogo non acquistano il loro significato reale se tra le persone coinvolte non si crea una situazione comunicativa adeguata; l’empatia è il fattore determinante perché determina un clima emotivo intenso e positivo (Emme 1996).

4. Apprendere a significare il proprio sentire

È obiettivo primario del dialogo centrato sull’empatia quello di aiutare l’educando a percepire e a significare il proprio modo di sentire, impegnandolo in un’opera che possiamo denotare di alfabetizzazione affettiva. Ha il massimo rilievo nella vita personale: in generale, i comportamenti di un soggetto sono determinati dai significati in cui egli sa esprimere il proprio mondo interiore; ma questa significazione, più che ragionamento o costruzione di conoscenze a livello argomentativo, è una comprensione della propria vita emozionale (Bollnow 1956).. Ora, nel clima  empatico, il fattore decisivo resta la parola: per un verso, la parola illuminante dell’educatore, che aiuta l’esplorazione emozionale di sé da parte dell’educando; per un altro verso, da parte di quest’ultimo, il condurre a parola secondo un significato personale i propri stati interiori (Demetrio 2000).

Per tale ragione, la verbalizzazione rende possibile strutturare un mondo singolare, un universo che diviene così sempre più personalizzato. L’interazione educativa empatica si pone come processo d’elaborazione e d’interpretazione delle verità personali, condotto da entrambi i dialoganti, nella forma di un testo configurato: grazie, in primo luogo, alla denominazione degli stati emozionali – quanto riguarda la qualità delle emozioni; e grazie, in secondo luogo, alla specificazione degli stati emozionali – che avviene tenendo presente il nesso tra il loro contenuto e l’intensità in cui si manifestano, esprimendoli e sperimentandoli (Riva 20072).

Relativamente alla denominazione e per articolare meglio questo aspetto, si può fare ricorso ad uno schema proposto da H. Franta. È strutturato in quattro campi semantici, attorno ai due assi sottomissione-dominanza (primo asse) e piacevole-spiacevole (secondo asse); ciascun campo permette una scelta lessicale il più possibile adeguata. La gioia, ad esempio, trova posto nel secondo campo semantico, definito dalle coordinate dominanza (del primo asse) – piacevole (del secondo asse); può pervenire ad una espressione adeguata grazie ad una frase come questa: «Il mio cuore è lieto perché tu sei qui». La tenerezza, invece, è nel quarto campo semantico, le cui coordinate sono sottomissione (primo asse) – piacevole (secondo asse); un’espressione adeguata può esser la seguente: «Se, accogliendomi, riesci ad abbracciarmi, mi fai felice». La tristezza, ancora, è nel campo delle coordinate sottomissione-spiacevole e può così venire a parola: «Per quanto mi sta accadendo, mi sento scoraggiato». L’ira, infine, è nel campo delle coordinate dominanza-spiacevole è può esprimersi anche solo dicendo: «Mi rincresce proprio se gli faccio del male e lui soffre» (Franta 1988).

Ma nel dialogo centrato sull’empatia, la verbalizzazione si deve configurare anche grazie alla specificazione degli stati emozionali, ciò che avviene tenendo presente il nesso tra il loro contenuto e l’intensità in cui si manifestano. Qui il campo lessicale e semantico può esser determinato facendo ricorso alla rappresentanza grafica di due coordinate cartesiane, dove l’asse delle ascisse serve ad indicare il grado di pertinenza e/o di distorsione nella verbalizzazione dei contenuti; l’asse delle ordinate, invece, misura l’adeguatezza nella verbalizzazione dell’intensità. Il punto di incrocio dei due assi perpendicolari esprimerebbe il livello ottimale; ogni stato emozionale può esser inteso come punto del campo ed esser individuato in base alla sua distanza dalle coordinate. La sua specificazione infatti è data da entrambi gli assi, in ragione del fatto che la verbalizzazione del contenuto è funzione di quello dell’intensità e viceversa (Franta 1988).

Giova all’esattezza della formulazione, naturalmente, tenere presenti tutte le forme di comunicazione non verbale: concorrono a costituire il concreto contesto connotativo, all’interno del quale le parole assumono il loro significato reale. Nella prospettiva qui presentata, non formano però l’aspetto determinante: nel dialogo empatico, la determinante in ultima istanza è data dal verbum, dall’intelligenza e dalla significazione verbale (Iafrate – Bertoni 2010).

5. Scrivere insieme un testo

La verbalizzazione può essere interpretata come processo di composizione di un testo, che, significato insieme dai soggetti coinvolti nella relazione educativa, si va strutturando in modo originale; quanto al genere letterario, possiamo comprenderlo come una narrazione autobiografica in forma dialogica. L’autobiografia dell’educando è tale anche quando a metterla in forma di racconto sia innanzitutto l’educatore; questi coopera con l’altro perché possa trovare la verità di sé, scorgendo qualche tratto del suo profilo personale (Buber 19845). Nel processo empatico, lo si è detto, l’educatore può divenire per l’educando una sorta di specchio, nel quale, riflettendosi, egli riesca a scorgere un aspetto del suo poter esser autentico.

In questo processo relazionale, le parole dette acquistano il caratteristico significato di una comunicazione eminentemente personale: sempre, anche le più banali, vengono percepite quasi fossero una confidenza, grazie alla quale un proprio segreto è comunicato per esser custodito a sua volta dall’altro; sono pertanto, le parole che l’educatore, col cuore, rivolge al cuore dell’educando. Ora, esse diventano comunicazione personale proprio perché messe in forma nell’indirizzarle all’altro; diventano comunicazione personale, si deve dir così, proprio in quanto comunicazione interpersonale. Posti l’uno di fronte all’altro, entrambi i soggetti si riconoscono interlocutori di un relazione dialogica, che consente una progressiva rivelazione di qualche aspetto delle loro emozioni, degli affetti e dei sentimenti. Tutti i discorsi acquistano uno spessore, semantico ma anche logico, che li rende parole dette ad un tu/per un tu: e il processo di significazione, il conferimento di senso all’universo emotivo personale che alle parole è consegnato, appare ora un’opera di co-significazione: comune composizione di un testo nel quale ogni persona coinvolta si percepisce, a pieno titolo, co-autore.

Il dialogo in qualche modo si compie quando l’educando diviene capace di empatia nei confronti di se stesso: sentendosi e vedendosi conosciuto e un po’ anche amato, egli apprende a conoscersi e ad amarsi. Si potrebbe scrivere che questo accade quando egli acquista uno speciale insight pedagogico che gli consente d’intuire e di significare sotto qualche aspetto il suo costitutivo desiderio d’essere; è forse quanto attua pienamente il senso del motto socratico che invita a conoscere se stessi. Non è sbagliato definirlo anche termine intenzionale dell’alfabetizzazione affettiva: il desiderio singolare è infatti la struttura portante o la sintesi di tutta l’affettività, di quella che in termini psicologici si può chiamare la nostra vita interiore (la psiche o «anima del corpo»).

Dalla riflessione pedagogica sull’empatia apprendiamo, in primo luogo, che questo riconoscimento di sé è in realtà un dono, dipende essenzialmente dalla libera iniziativa dell’altro che ci viene incontro e sceglie di condividere qualche nostro vissuto personale (Scheler 20004). In secondo luogo, come nota Edith Stein, poiché non è un semplice atto psicologico, ma è insieme sempre un’azione spirituale, riconoscersi implica di far vivere «la parte più viva e più profonda di noi stessi» (lo pneuma o «anima dell’anima») (Stein 2004).

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Pour citer cet article
Référence électronique :
Antonio Bellingreri, « Il ruolo dell’empatia nell’alfabetizzazione affettiva», Educatio [En ligne], 3 | 2014, mis en ligne juillet 2014. URL : https://revue-educatio.eu

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* Ordinario di Pedagogia generale, Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Palermo