Libertà di espressione ieri e oggi in Italia : questioni educative tra Rosmini, Milani e la scuola del merito .

Paolo Bonafede, Università di Trento, & Federico Rovea, Istituto Universitario Sophia.

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Résumé : La liberté d’expression reste un sujet d’actualité, car sa mise en œuvre est problématique en Italie et dans le monde. Dans cette contribution, les auteurs ont l’intention de développer la question de la liberté de parole et d’expression en relation avec l’éducation scolaire, et en référence au contexte italien. Le fait de se concentrer sur une zone géographique et culturelle permet de réaliser deux opérations :

  1. Retracer l’évolution historico-juridique de cette question dans le cadre de la modernité tardive et de la contemporanéité, en mettant en évidence les processus, les évolutions et les métamorphoses du concept selon une perspective diachronique qui s’étend jusqu’à aujourd’hui ;
  2. A la lumière des équilibres complexes et fragiles sur lesquels cette liberté est actuellement greffée, il serait opportun de renouer les fils de ce concept, et ses racines profondes avec la tradition pédagogique italienne, en se référant à deux auteurs centraux tels qu’Antonio Rosmini (1797-1855) et Lorenzo Milani (1923-1967).

Mots clés : Rosmini, Milani, Liberté d’expression, Education, École italienne

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1.    Pensiero e libertà : un binomio ancora in discussione.

Si dice spesso che il pensiero sia libero. Un essere umano non può essere ostacolato dal pensare qualsiasi cosa scelga di pensare, fintanto che non nasconde a se stesso ciò che pensa. Il funzionamento della sua mente è limitato solo dai limiti della sua esperienza e dal potere della sua immaginazione. Ma questa libertà naturale del pensiero personale è di per sé di scarso valore, insoddisfacente e persino dolorosa, se colui che pensa non ha la possibilità di comunicare i propri pensieri agli altri. In tal senso la libertà di pensiero è condizione necessaria ma non sufficiente per la libertà di parola e di espressione.

Attualmente nel contesto occidentale questa forma di libertà è data per scontata: siamo così abituati che la consideriamo un diritto naturale. Ma questo diritto, come ricordava in tempi non sospetti John Bagnell Bury[2], è stato acquisito recentemente solo in alcune realtà del mondo; inoltre la strada per renderlo pienamente diffuso è ancora oggi decisamente tortuosa.

1.1 Libertà di parola oggi : il quadro globale e il contesto italiano.

A partire dal 2021, diverse nazioni del G20, tra cui Brasile, India e Turchia, stanno vivendo un declino della democrazia o si stanno trasformando in autocrazie, dove non ufficialmente quantomeno di fatto. In Turchia nel 2023 si sono svolte le elezioni presidenziali che hanno rieletto il presidente Recep Tayyip Erdogan per un terzo mandato, consegnando il paese ad un ventennio di governo senza ricambi. Situazioni simili si verificano all’interno dell’Unione Europea, dove Polonia e Ungheria sono avviate su percorsi simili. Si tratta delle cosiddette democrature[3], forme di governo che pur mantenendo le formalità della democrazia (il lavoro istituzionale, le libere elezioni, la stampa plurale etc.) scivolano silenziosamente verso pratiche autoritarie. Senza che vengano formalmente limitate le libertà e  soppressi gli organi di governo, la sostanza del lavoro governativo viene accentrata – il dibattito parlamentare, ad esempio, viene di fatto scavalcato da una concentrazione delle decisioni sugli organi esecutivi e sulla persona del primo ministro – e il processo democratico viene svuotato di significato. Spesso a questo processo si affianca una forma di disintermediazione dei rapporti politici, dove il lavoro di discussione all’interno di corpi intermedi e strutture di base dei partiti è sostituito da comunicazioni dirette (e spesso mediaticamente studiate) tra il leader e i votanti. Si aggiunge poi nella maggioranza dei casi una forma di svalutazione del lavoro giornalistico e culturale, condotto tramite la manipolazione dell’opinione pubblica piuttosto che tramite attacchi diretti alla libertà di stampa e di espressione.

La discussione tra pari che dovrebbe rappresentare l’ossatura della vita democratica è così messa sostanzialmente fuori gioco, sebbene resti in piedi un’apparenza di libertà democratica. I numeri riportati dall’istituto Varieties of Democracy (V-Dem) dell’Università di Göteborg sono in questo senso allarmanti: il 68% della popolazione mondiale (87 Paesi) vive ormai in regimi autocratici; l’India, con una popolazione di 1,37 miliardi, è recentemente regredita da « più grande democrazia del mondo » ad « autocrazia elettorale ». Tra i fattori che hanno portato alla retrocessione dell’India, i più sostanziali sono state le minacce alla libertà dei media, del mondo accademico e della società civile. Il numero di democrazie liberali, nel frattempo, è sceso da 41 nel 2010 a 32 nel 2020, e ora conta solo il 14% della popolazione globale. Le democrazie elettorali sono presenti in 60 Paesi e rappresentano il restante 19% della popolazione mondiale.

A livello globale, la libertà di espressione è dunque particolarmente sotto pressione. Peraltro, l’attacco all’indipendenza dei media e del comparto culturale (di cui la scuola è parte integrante) è uno dei primi segnali dello scivolamento di un governo verso forme più o meno esplicite di autoritarismo. Secondo V-Dem, l’anno scorso 32 Paesi hanno assistito al declino sostanziale di questo pilastro democratico; tre anni fa, il numero era « solo » 19. E nell’ultimo decennio, otto dei dieci indicatori democratici in peggioramento erano legati alla libertà di espressione. Secondo il World Press Freedom Index pubblicato dall’organizzazione Reporters Without Borders la libertà di stampa è pericolosamente sotto attacco in diversi paesi storicamente molto attenti al tema della libertà: per citare un esempio clamoroso, gli Stati Uniti d’America si trovano al 45° posto[4]. Certo, in paesi come gli Stati Uniti d’America (ma si tratta di un fenomeno che coinvolge anche l’Italia) la libertà di espressione non è sotto attacco, per così dire, in maniera diretta o violenta.

Come per le istituzioni democratiche più in generale, il fenomeno che si sta verificando è quello di uno svuotamento di significato che lascia intatta la struttura esterna (i giornali e le televisioni lavorano in maniera formalmente indipendente, così come nelle scuole vige la libertà di insegnamento) mentre viene invece drenato “dall’interno” il senso di queste istituzioni per il vivere collettivo. I giornali, ad esempio, sono pubblicati regolarmente ma l’eccessiva polarizzazione delle opinioni, la necessità di attrarre lettori e vendere copie e i legami non sempre chiari con il mondo politico ne stanno minando la credibilità, privando così la collettività di uno strumento fondamentale per l’esercizio della democrazia. E per quanto riguarda la scuola? Qual è la situazione di questa fondamentale istituzione all’interno del quadro che abbiamo descritto?

1.2 Propositi di indagine del contributo.

Per questa ragione  la libertà di espressione è un tema ancora oggi decisamente attuale, dato che la sua applicazione risulta decisamente problematica. Per offrire alcune linee interpretative valide riteniamo che vada ricostruito il quadro genealogico: parlare di libertà di parola significa prima di tutto interessarsi della sua dimensione storica, quindi dell’evoluzione teoretica e istituzionale che accompagna tale concetto.

Nel presente contributo intendiamo sviluppare la questione della libertà di parola e di espressione in rapporto all’educazione scolastica e in riferimento a un contesto specifico, quello italiano. Il focus incentrato su una determinata area geografico-culturale, come nel caso dell’Italia, consente di svolgere due operazioni, di cui intendiamo dare sviluppo :

  • in primo luogo permette di tracciare per sommi capi l’evoluzione storico-giuridica di tale questione nella cornice della tarda modernità e della contemporaneità, evidenziando processi, evoluzioni e metamorfosi del concetto secondo una prospettiva diacronica che giunga fino ai giorni nostri;
  • in secondo luogo, alla luce dei complessi e fragili equilibri su cui si innesta attualmente tale libertà, offre l’opportunità di riallacciare i fili di questo concetto e delle sue radici profonde con la tradizione pedagogica italiana; una tradizione plurale, di cui non si potrà che offrire limitati cenni in riferimento a due autori centrali come Antonio Rosmini e Lorenzo Milani.

2.    Libertà di espressione : questioni storiche, giuridiche ed educative in Italia.

Attraverso questo breve excursus si intende mostrare il percorso tortuoso della libertà di espressione, che dai primi passi della Modernità si coniuga con le categorie filosofico-politiche di cittadinanza, liberalismo, democrazia, uguaglianza, educazione. In tale processo plurisecolare la genesi di questo diritto è passata attraverso azioni di rivendicazione, che hanno assunto anche forme di manifestazione violenta. Del resto, rivendicare è un’azione politica, che si iscrive all’interno di categorie giuridiche; è un processo di contestazione, che si basa sulla necessità di riequilibrare la bilancia della giustizia laddove si pensa sia stata disallineata. Nel diritto romano si trattava di un’azione connessa al diritto di proprietà: in età ciceroniana la rei vindicatio era diretta originariamente contro il possessore, cioè contro colui che riteneva la cosa animo possidendi. Rivendicare significa fare valere il proprio diritto rispetto a un oggetto, concreto o astratto.

Per questa ragione la storia della libertà di espressione è un percorso di rivendicazioni che attraversa l’epoca della Modernità e il tempo della coscientizzazione sociale e civile. Non è un caso che i documenti giuridici fondamentali per lo stato italiano arrivino durante o al termine di un percorso di riappropriazione della libertà civile e politica, in epoca risorgimentale prima e a seguito della dittatura fascista e dell’occupazione nazista poi.

2.1 Itinerari storico-giuridici di libertà

La libertà di esprimere le proprie convinzioni e le proprie idee sorge inizialmente come corollario della libertà di religione, rivendicata dai primi scrittori cristiani nel corso del II-III secolo, rimanendo poi sullo sfondo del dibattito nei secoli del Medioevo. Con la Modernità la questione riemerge in virtù di diversi elementi che cambiano il panorama culturale: probabilmente l’aspetto più significativo è l’invenzione della stampa[5], che consente una distribuzione più ampia del sapere, generando però una formazione di pensieri e interpretazioni eterodosse da cui hanno origine significativi contrasti: torna in auge in questo modo la questione religiosa e confessionale, con i conflitti tra cattolici e protestanti che rendono l’Europa un terreno di scontro civile tra XVI e XVII secolo. In secondo luogo la questione della libertà di espressione viene sollecitata anche sui versanti della conoscenza – da grandi teorici della libertà di ricerca scientifica come Cartesio o Galileo – e della libertà politica, da numerosi filosofi del XVII, XVIII e del XIX secolo (tra gli altri, Locke, Spinoza, Voltaire, Fichte, Bentham, Stuart Mill).

La questione diventa sempre più oggetto di dibattito pubblico nei diversi stati che compongono la penisola italica tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, a seguito delle influenze esercitate dall’Illuminismo francese, interessando quindi in particolar modo il versante politico. Prima dell’Unità d’Italia (1861) il territorio italiano era diviso in una pluralità di Stati indipendenti, retti da regimi assolutistici (sebbene, talora, si trattasse di assolutismo “moderato”). Su quegli Stati, a seguito della Rivoluzione francese e della dominazione napoleonica, soffiò il vento dei rivolgimenti culturali e politici che segnarono, con la fine del Settecento, la conclusione “ideale”[6] della stagione della dominazione straniera sulla Penisola[7]. La cultura tardo-illuminista, unita alle prime espressione del Romanticismo europeo, generarono in Italia quel movimento di indipendenza nazionale che è conosciuto con il nome di Risorgimento: dal punto di vista storiografico esso rappresenta quel complesso processo spirituale e politico, composto di trasformazioni economiche, sociali, letterarie, culturali, di eventi diplomatici e militari, che nell’Ottocento portarono l’Italia dal secolare frazionamento politico all’unità, quindi da una situazione di dominio straniero all’indipendenza nazionale e alla formazione di uno Stato liberale e costituzionale sotto la dinastia sabauda[8]. Si tratta di un periodo di intenso dibattito politico e di dure lotte sociali, che ebbe riflessi importanti anche sul piano delle novità costituzionali, compreso il diritto alla libertà di espressione.

Fu in particolare l’epoca napoleonica a fornire le premesse per la maturazione di rivendicazioni libertarie a livello politico e giuridico. Furono anni nei quali «il concetto tradizionale di costituzione, sin allora usato in senso essenzialmente descrittivo, assume un contenuto prescrittivo»[9]: una nuova costituzione diventa il segno del cambiamento e marca non solo un passaggio di regime, ma anche una svolta nei rapporti politici, in senso liberale.

I testi costituzionali di quel tempo si ispirano al principio borghese dello stretto collegamento fra libertà e proprietà. Nella Costituzione della Repubblica Cisalpina del 1797 viene infatti sancito:  «I diritti dell’uomo in società sono la libertà, l’eguaglianza, la sicurezza e la proprietà» (art. 1)[10]. Proprio il collegamento tra libertà e proprietà, ripreso dalle teorie lockiane, porta addirittura a considerare il rapporto del singolo con la propria persona in termini proprietari: «Ognuno può obbligare il suo tempo ed i suoi servigi; ma non può vendersi, né essere venduto: la sua persona non è una proprietà alienabile» (art. 15).

In virtù di questo principio la Costituzione della Repubblica Cisalpina stabiliva che «A niuno può essere impedito di dire, scrivere e stampare i suoi pensieri. Gli scritti non possono essere sottomessi ad alcuna censura prima della loro pubblicazione. Niuno può esser responsabile di quanto ha scritto o pubblicato se non nei casi preveduti dalla legge» (art. 354). La libertà di espressione viene quindi inserita nel segno del primato dato ai principi sopra esposti, effetto di altre libertà fondamentali.

Questa formulazione – presente anche negli altri stati italiani del tempo[11] e sospesa in seguito alla stagione della Restaurazione – viene ripresa dallo Statuto Albertino (1848), la costituzione concessa da Carlo Alberto al regno di Sardegna ed estesa al resto d’Italia nel 1861, divenendo a tutti gli effetti la prima Costituzione italiana. L’ art. 28 recita infatti: «La Stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi. Tuttavia le bibbie, i catechismi, i libri liturgici e di preghiere non potranno essere stampati senza il preventivo permesso del Vescovo»[12]. Si nota in questo caso come la stampa, mezzo con cui si esercita la libertà di espressione, sia parzialmente libero: una legge reale può reprimere questa libertà se identifica gli abusi, senza che i criteri vengano delineati. Lo stesso dicasi per i libri religiosi, di competenza dei vescovi e quindi del potere ecclesiale. Solo dopo la liberazione dal regime fascista l’Italia definisce una nuova Costituzione (1948) con nuove disposizioni sulla libertà di espressione, all’articolo 21[13].

La libertà di espressione si colloca nel quadro costituzionale italiano attuale a metà tra le libertà individuali e le libertà collettive, nel senso che la ragione della sua tutela risiede sia nell’interesse individuale di esprimere i propri convincimenti, sia nell’interesse generale e sociale di fornire,  attraverso il libero confronto delle varie opinioni, forme di progresso. La libertà di manifestazione del pensiero è definita dalla giurisprudenza costituzionale come la «pietra angolare dell’ordine democratico», in quanto «condizione del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale»[14]. A essa si affiancano gli articoli inerenti il diritto all’istruzione, nei quali si sottolinea l’apertura e il diritto di accesso all’educazione formale, di confronto e di possibilità di sviluppo individuale e sociale (art. 3, 33 e 34). Dunque il legame tra libertà di espressione e diritto d’istruzione trova proprio nell’istituzione scolastica il luogo naturale di realizzazione di tali principi costituzionali. Si tratta di verificare se tali diritti siano pienamente espressi nel contesto italiano più recente.

2.2 La scuola italiana alla prova della libertà.

Muoviamo ora con un importante salto cronologico verso la contemporaneità, per vagliare gli esiti ultimi della storia della libertà di parola in un’istituzione – la scuola – centrale per il vivere democratico. In un certo senso, la scuola italiana sta recentemente patendo un processo simile a quello che abbiamo delineato in sede di introduzione e che coinvolge in generale le istituzioni democratiche. Pur mantenendo una struttura e delle formalità libere, la libertà di parola nella scuola è infatti erosa dall’interno, costretta nella quotidianità del lavoro educativo dalle sottili imposizioni di quello che per amor di brevità chiameremo regime neoliberale[15]. Come le istituzioni democratiche, anche la scuola sta in un certo senso perdendo il senso dell’esercizio della parola libera pur mantenendola formalmente tra i propri pilastri. Proveremo qui a ripercorrere tre momenti centrali della trasformazione neoliberale della scuola italiana avvenuti in tempi recenti tramite tre riforme dell’istituzione[16]: la riforma Moratti (2003), la riforma Gelmini (2010) e la riforma Renzi (2015). Queste tre riforme hanno contribuito a rendere strutturali alcuni dei nuclei fondamentali dell’impostazione neoliberista che si è allargata alla scuola. Stiamo parlando, ad esempio, della contrazione dei finanziamenti da parte dello stato che porta a una competizione per le risorse (e alla necessità per la scuola di cercare fondi aggiuntivi “mettendosi sul mercato” e lasciando ampi spazi al privato), dell’individualizzazione dell’insegnamento a scapito della formazione collettiva e democratica e, infine, del trasferimento vero e proprio del modello aziendale alla scuola. Mostreremo quindi come questa trasformazione dell’istituzione scolastica non abbia di per sé posto limiti alla libertà di parola e alla sua formazione ma l’abbia piuttosto privata di significato o, in altri termini, l’abbia resa non desiderabile ribaltando l’ordine dei valori di cui l’istituzione si fa portatrice.

Tutte e tre queste riforme, è bene ricordarlo, hanno incontrato una decisa resistenza da parte dei lavoratori e delle lavoratrici della scuola e ciononostante sono state portate a termine. Inoltre queste tre riforme non sono da considerarsi come momenti di svolta in senso forte – come se marcassero radicalmente un “prima” e un “dopo” – ma sono da pensare piuttosto come punti di riferimento all’interno di un processo di trasformazione che si dipana nel tempo e che impone senza rotture radicali una nuova normalità. In effetti, nessuna di queste tre riforme ha inciso in  maniera strutturale sul sistema scolastico italiano (che, lo ricordiamo, ha visto l’ultima trasformazione radicale nel 1962 con l’introduzione della scuola media unica), ma tutte e tre hanno contribuito con modifiche più o meno profonde a plasmare l’assetto scolastico del paese.

Il primo punto a cui abbiamo sopra accennato – la contrazione dei finanziamenti – è uno dei nodi in un certo senso trasversali, non riconducibili a una singola riforma ma spalmati su un lungo periodo di tempo. L’Italia è cronicamente uno dei paesi che investe meno risorse nel suo sistema scolastico tra i paesi europei[17] e che presenta dati preoccupanti sull’abbandono scolastico, anche precoce. Evidentemente non si tratta di scelte consapevoli di una certa parte politica, ma piuttosto di un processo storico-economico che impone di dirottare la maggior parte delle risorse a disposizione dello Stato verso altre destinazioni, trascurando l’istruzione pubblica. Come conseguenza, l’istruzione privata e paritaria guadagna margini di manovra. Oltre a ciò si deve poi considerare – e questo elemento è sostanzialmente trasversale alle tre riforme citate fino a prolungarsi ad oggi – che come risposta alla questione dell’abbandono scolastico è stato generalmente proposto un rafforzamento della formazione professionale, sempre più autonoma e non comunicante con la formazione di tipo liceale. Se da un lato questa è una risposta logica per poter fornire almeno una formazione di base a tutti, dall’altro non fa che allargare la forbice – culturale in primis e poi in termini lavorativi – tra coloro che accedono ai gradi più alti degli studi e coloro che si fermano prima. Inoltre, l’accento posto sulla formazione professionale è direttamente legato a una retorica che vede la scuola come unicamente funzionale all’ingresso nel mondo del lavoro e che può facilmente essere privata degli insegnamenti umanistici, inutili ai fini dell’occupazione.

Certo, è da riconoscere che questo tipo di trasformazione della scuola – in particolare il potenziamento dei percorsi professionali – non è in toto da rifiutare in nome della battaglia contro il neoliberismo pedagogico. Può, al contrario, essere un ottimo mezzo per fornire un’istruzione di qualità a un gran numero di persone. Il pericolo che riconosciamo è quello di ridurre il tempo scolastico a semplice tempo di preparazione al lavoro, mentre anche la formazione professionale deve preparare cittadine e cittadini consapevoli prima che lavoratori efficienti.

Una simile dinamica può essere riconosciuta nell’introduzione di forme di personalizzazione dell’insegnamento, introdotte per la prima volta dalla riforma Moratti e poi sviluppate (anche se con varia terminologia) fino alle Indicazioni nazionali del 2007[18]. Ancora una volta, di per sé la personalizzazione può essere un’efficace risposta alle esigenze sempre più diversificate di studentesse/i e dei diversi istituti, alle loro specificità, necessità e punti di forza. Questo processo tuttavia scade troppo facilmente in forme di individualismo didattico, con conseguente perdita del senso di un percorso condiviso all’interno di una certa tradizione culturale. Se la scuola pubblica uscita dal secondo dopoguerra era caratterizzata dalla volontà di formare cittadini coscienti e attivi per il futuro di una Repubblica ancora da costruire[19], quella degli anni duemila scivola invece verso l’individuo, il suo percorso di vita e il suo singolare futuro lavorativo in una società che sceglie più o meno consapevolmente di non coltivare la collettività e la pratica democratica. Le varie forme di alternanza tra scuola e lavoro sono marcate dalla stessa difficoltà, che piuttosto che fare del lavoro una scuola tende a fare della scuola un lavoro (o, perlomeno, un lunghissimo stage).

Ecco che, all’interno di un quadro sommariamente delineato, possiamo tornare a riflettere sulla libertà di parola. Quale ruolo per la parola libera nella scuola individualizzata, mercantilizzata e sotto-finanziata che avanza? Una possibile risposta a questa domanda riprende quanto affermato sopra circa le istituzioni democratiche. Formalmente, la libertà di parola ha piena cittadinanza nella scuola. Non esistono limiti formali alla libertà di insegnamento per i docenti, gli studenti hanno dei rappresentanti negli organi decisionali della scuola e hanno diritto ad assemblee. La questione che si pone non è formale ma sostanziale: queste libertà formalmente garantite hanno un peso nella vita dell’istituzione scolastica, o sono invece rese possibili ma indesiderabili? Se gli obiettivi del percorso scolastico sono una buona riuscita nel mondo del lavoro o una forma di successo individuale, certamente imparare a praticare la parola non è tra le questioni più urgenti. L’educazione come «imparare a situarsi tra uomini»[20] è possibile ma è spinta in fondo alla classifica degli obiettivi: prima vengono l’occupabilità, le discipline tecniche, il benessere individuale etc. Non che questi siano obiettivi da rifiutare, ma c’è certamente da riflettere sull’ordine delle priorità. Apprendere a dibattere, ad argomentare le proprie posizioni accogliendo quelle degli altri, conoscere il funzionamento degli apparati dello Stato, saper interpretare correttamente le informazioni da un quotidiano e formarsi un’opinione personale, sono abilità “fuori mercato”.

La sfida della libertà di parola nella scuola si configura allora oggi come un cammino verso una valorizzazione dell’arte della parola stessa in un contesto sottilmente ostile. Non una difesa frontale di un diritto calpestato, ma la faticosa lotta per trasmettere il valore essenziale di un bene che sta perdendo il suo significato.

2.3 Comunicare ed educare: forme della libertà umana

In conclusione, un diritto come quello della libertà di espressione (a volte sfoggiato come un’etichetta) si rende manifesto al di là del solo livello dell’azione politico-giuridica, coinvolgendo anche la formazione delle istituzioni educative, come nel caso della scuola. Si tratta quindi in questo senso di un ideale che si plasma a stretto contatto con la dimensione educativa e formativa: del resto comunicare significa “mettere in comune” e prevede partecipazione e interiorizzazione da parte di chi ne accoglie il messaggio. Il movimento comunicativo sembra passare da una dimensione esterna ad una interna all’individuo partecipe della messa in comune. Questa logica sollecita inevitabilmente la sfera educativa che, sempre partendo dall’etimologia del termine, segue un processo generativo contrario alla comunicazione, in quanto significa “portar fuori, far emergere dall’individuo”. Apparentemente comunicazione ed educazione sembrano due processi opposti. Sono in realtà momenti di un movimento circolare doppio: esterno-interno-esterno sia per la comunicazione che per l’educazione. La sintesi fra i due termini avviene per mezzo della forma segnica che educazione e comunicazione condividono, vale a dire il linguaggio.

Da questo punto di vista riflessioni fondamentali sulle possibilità espressive e sulle potenzialità educative insite nell’educazione alla libertà di parola possono essere rintracciate proprio in due pedagogisti italiani, protagonisti delle stagioni di conquista e rivendicazione dei diritti di espressione: da un lato, in epoca risorgimentale, Antonio Rosmini (1797-1855), dall’altro, nella stagione della Prima Repubblica, successiva al secondo conflitto mondiale, Lorenzo Milani (1923-1968). Le loro lezioni, qui riportate brevemente e senza pretesa di esaustività, rappresentano un esempio per riappropriarsi significativamente del diritto all’espressione.

3.    Educare alla libertà di espressione nella tradizione italiana: le prospettive di Rosmini e Milani.

La questione della libertà di espressione accompagna la pedagogia in numerosi autori della tradizione italiana; in questa sede si è scelto di presentarla attraverso l’opera di due autori che hanno prima di tutto incarnato questo ideale, seppur in maniera differente, e che proprio in virtù delle loro posizioni sono stati emarginati dalla loro istituzione di riferimento, la Chiesa cattolica, per poi essere riscoperti in virtù della loro posizione di dissidenti, riformatori e innovatori[21].

3.1 Rosmini, la chiarezza del linguaggio e la libertà dell’insegnamento.

Nonostante sia ricordato principalmente per il suo sistema teosofico, per le critiche svolte alla direzione pastorale della Chiesa e per le idee di rinnovamento politico ed ecclesiologico, Antonio Rosmini è stato anche pedagogista di rilievo nel panorama del XIX secolo, al punto da poter essere legittimamente considerato tra gli autori di riferimento per la filosofia e la pedagogia italiana degli ultimi due secoli[22].

Come anticipato, la vicenda biografica dell’autore è strettamente correlata con le critiche ricevute dalla linea conservatrice-gesuita del cattolicesimo, al punto da portare gli storici a parlare di “questione rosminiana”: con tale termine si intende la controversia sull’ortodossia di Rosmini e del rosminianesimo[23].

Nonostante le difficoltà, Rosmini operò all’interno dell’Istituto da lui fondato, dedicato alla Carità, nel quale l’educazione era vista come un impegno assoluto, connessa al problema del valore dell’uomo e all’importanza della personalità e della vita morale[24]. L’integrazione dell’azione educativa con il più ampio orizzonte della realizzazione umana permetteva di declinare il principio della carità come educazione del sentire, dell’intendere e del volere, in una prospettiva antropologica integrale.

Rosmini scrive opere sull’educazione religiosa, sul rinnovamento dei fini formativi e delle metodologie da seguire nel percorso educativo, che si sommano a brevi testi sull’insegnamento e sui regolamenti degli istituti scolastici guidati dall’Ordine, insieme a numerose lettere di taglio pedagogico. Tra loro, troviamo in particolare due testi che offrono un contributo rilevante rispetto alla questione della libertà di espressione.

La prima riflessione riguarda il concetto di chiarezza linguistica: la parola, veicolo ed espressione del pensiero, per Rosmini va educata[25]. È la questione centrale de Il linguaggio teologico[26], breve saggio scritto negli ultimi mesi di vita da Rosmini, pubblicato postumo, che rappresenta una riflessione ex-post sulle vicende di critica e censura da lui subite, chiuse in quei mesi con il decreto Dimittantur (1854)Nel saggio il problema del linguaggio è trattato come aspetto essenziale in riferimento all’ecclesiologia e alla dottrina rivelata, ma indicazioni metodologiche per educare la libertà di espressione in ogni campo. Rifacendosi a Vittorino, Rosmini evidenzia le possibili cause della mancata chiarezza espressiva, comunicativa e formativa in uno dei pilastri della triangolazione didattica[27]: «L’oscurità dipende o dalla materia per sé difficile, o dallo scrittore, o dal lettore»[28].

Ciò significa che la responsabilità di colui che esprime i propri pensieri è interconnessa con il contenuto e l’interlocutore reale posto di fronte a sé: Rosmini parla infatti a più riprese della necessità di compiere pedagogicamente un adattamento dei contenuti[29], aspetto che diventa centrale in riferimento alla Rivelazione, argomento del trattato[30]. Questo criterio a livello metodologico può essere generalizzato ad altri contenuti e si accompagna al principio della gradualità, trattato in un’altra opera di carattere squisitamente pedagogico[31]. Per l’autore la gradualità rappresenta il principio alla base dell’evoluzione del sapere e conseguentemente diventa criterio della comunicazione della conoscenza e delle idee, che vanno interpretate in una processualità storica[32]. La gradualità si innesta in una pluralità di approcci e possibili vie, anche in ambito teologico. Questo perché le possibilità linguistiche ed espressive di comunicare tanto i saperi quanto la dottrina sono infinite[33], permettendo di dare accesso a ciascuno in modo personale alla conoscenza[34]. Tale varietà è resa possibile in particolare proprio dal linguaggio, dalla possibilità di esprimere, in lingue differenti, con modi di dire specifici, idee e pensieri propri e trasmessi. In questo senso la potenzialità espressiva del linguaggio rappresenta il cardine del processo educativo

Ovviamente sussiste un confine della libera espressione, che per Rosmini risiede nella Rivelazione divina: solo in essa libertà e verità si realizzano pienamente, secondo il modello di educazione religiosa specifico dell’autore[35]. Il riferimento costante al messaggio evangelico consente di individuare norme per l’esercizio della parola – tratte da Muratori e discusse pochi anni prima nella Logica (1851) – in modo che la libertà di espressione sia connessa ai principi del retto ragionamento e conduca allo sviluppo completo della persona.

Il secondo contributo riguarda la questione della libertà di insegnamento, argomento di accese discussioni nel Piemonte preunitario della prima metà dell’800. Rosmini contribuisce con un breve saggio, Della libertà d’insegnamento, scritto anch’esso nel 1854. Il taglio del saggio è giuridico: la libertà d’insegnamento è infatti definita come un diritto naturale che nessuno Stato può calpestare, qualunque sia la sua forma di organizzazione. In questo senso la questione della libertà di espressione, connessa a quella educativa, viene trattata dall’autore secondo il principio della giustizia[36].

Lo Stato liberale di Rosmini deve limitare il proprio diritto di legiferare attraverso il dovere di confermare, proteggere e incentivare i diritti che ogni persona possiede naturalmente.[37] La libertà d’insegnamento si iscrive tra le forme di libertà del cittadino. «La libertà» – chiarisce Rosmini – è «l’esercizio non impedito dei propri diritti» e la libertà d’insegnamento «l’esercizio non impedito del diritto di insegnare e di imparare»[38]. Nel saggio l’autore quindi utilizza in questo testo il termine libertà come libertas a choatione (libertà dall’impedimento), senza richiamare direttamente il principio, da lui evidenziato in altri testi, per il quale la libertà umana ha la sua origine nelle facoltà dell’essere umano, compresa la ragione[39].  Pertanto il diritto di insegnare e di imparare è tale per natura perché l’uomo ha il diritto di esercitare le proprie facoltà secondo un fine che sia onesto[40]. Ne consegue che tutte le azioni che impediscono questo esercizio ad un uomo, siano esse messe in atto da un altro uomo o da uno Stato, sono azioni tiranniche e illiberali. Ciò che caratterizza la facoltà di insegnare è che possiede una bontà intrinseca: «uno dei più santi e nobili usi, che si possono fare delle proprie potenze, si è quello d’insegnare altrui cose utili e vere, e di impararne da tutti»[41]. Il diritto di insegnare e di imparare sono inoltre correlativi, perché dove uno dei due è impedito anche l’altro non può esprimersi.

Nella sua applicazione, però, il diritto deve avere dei limiti affinché la libertà di esercitarlo non si trasformi in arbitrio. Stando alla definizione suggerita da Rosmini, il diritto di insegnare deve subire tre limitazioni: a) la mancanza del sapere necessario ad insegnare una determinata disciplina; b) la mancanza dell’onestà dell’insegnamento: «non c’è infatti un diritto di insegnare il male o l’errore»; c) la mancanza di inoffensività nel modo di insegnare. Qui ritorna, dal punto di vista del docente, l’attenzione alla triade dell’insegnamento che abbiamo già ritrovato nel testo Del linguaggio teologico, e che fa da sfondo a qualsiasi considerazione alla libertà di espressione nella proposta rosminiana: una libertà che può poggiarsi sulla capacità espressiva di colui che comunica il proprio pensiero, il rispetto per i contenuti e la disciplina di cui si dibatte, infine l’attenzione a rendere comprensibile all’interlocutore il contenuto comunicato.

3.2 Milani, la parola emancipatrice e la pratica delle scuole parrocchiali

Anche la biografia di Lorenzo Milani è segnata da dissidi e contrasti con la Chiesa cattolica e più in generale con quelle forme di autorità, compreso il fascismo, che degenerano in controllo e censura[42]. Rispetto a Rosmini, le posizioni espresse da Milani sulla libertà di espressione rappresentano un modus operandi anziché una prerogativa teorica: una filosofia dell’azione che si intreccia tanto con la vicenda biografica quanto con i testi.

Lorenzo Milani possedeva una weltannschaung di natura transnazionale e un repertorio linguistico che comprendeva tedesco, italiano, inglese, francese, spagnolo, latino, ebraico e greco antico, data l’appartenenza alla famiglia aristocratica allargata Comparetti-Milani-Weiss[43]. Poiché la sua posizione sociale lo portava a diretto contatto con il privilegio sociale, culturale ed economico, il contatto con la povertà nelle strade di Firenze e Milano e l’indignazione rispetto all’ingiustizia sociale che caratterizzava la società in cui viveva costituirono l’inizio di un percorso che portò alla sua opzione per gli emarginati[44]. I vent’anni di guida pastorale di Milani, tra il 1947 e il 1967, si svolsero in un contesto socio-politico segnato dalla crociata contro il comunismo di Pio XII, tra i responsabili della polarizzazione tra cultura cattolica e laica nella società italiana. Milani si rifiutò di mettere in primo piano l’anticomunismo nella sua opera pastorale: nella diocesi fiorentina[45] Milani si sentiva moralmente obbligato a raggiungere tutti, indipendentemente dal proprio background ideologico.

Il percorso di Milani iniziò nella parrocchia di San Donato di Calenzano, piccola comunità pratese popolata da contadini e operai tessili. In Esperienze pastorali[46] Milani racconta la sua esperienza ed emergono i principi del suo percorso pastorale: coerenza tra azione, riflessione e spiritualità[47]; prevalenza della legge morale sul dominio del potere; cura educativa verso coloro che vivevano ai margini[48]. Nello spirito di quello che oggi si definirebbe sviluppo comunitario emancipatorio, Milani si immerse nella comunità, per incontrare i problemi sociali della gente del paese, quali disoccupazione, sfruttamento del lavoro minorile e crisi degli alloggi. Il paesaggio culturale di San Donato era definito da alti livelli di analfabetismo e aridità culturale, motivi per i quali Milani strutturò il suo progetto educativo sulla scuola serale, sulla Conferenza del venerdì e su sessioni di teatro presso la sede della Compagnia del S.S. Sacramento.

In particola la scuola rappresenta il tentativo pedagogico di superare la barriera linguistica che rendeva impossibile conversare con gli abitanti di San Donato. La motivazione della sua azione pedagogica è dunque educare alla parola per liberare lo spazio di comunicazione e condivisione, sia in senso religioso[49] sia su altre questioni profonde e potenzialmente trasformative connesse alla vita sociale. In questo senso la libertà di espressione era connessa al Vangelo e ai testi sacri, aprendosi anche agli argomenti e ai temi della vita quotidiana e dei problemi delle persone. Educare il linguaggio e la parola era quindi il centro della pedagogia della libertà di Milani, perché non si può leggere il mondo senza padroneggiare la parola, dato che il linguaggio rappresenta la chiave che apre la possibilità di esprimere sé stessi e di interagire nel mondo[50].

Gli studenti di Milani, a San Donato prima e a Barbiana poi[51], si impegnarono in una ricerca-azione emancipatrice, nella quale univano ricerca d’archivio e conoscenza diretta ed esperienziale, in forme di scrittura collettiva nei quali integrare determinati contenuti con le loro analisi. Nel vero spirito della teologia sociale, l’obiettivo finale della scrittura era quello di aiutare la comunità a trasformare le condizioni che facilitano la dominazione materiale e culturale.

La dedizione al progetto educativo divenne assoluta a Barbiana: la scuola[52] era rivolta a studenti, di età compresa tra gli undici e i diciotto anni, dodici ore al giorno, sette giorni su sette, festivi compresi [53]. Nella scuola di Barbiana proponeva un curriculum parallelo a quello istituzionale che rispondeva alle aspettative che Milani percepiva come esigenze reali. Secondo uno dei suoi ex studenti, i bisogni reali corrispondevano a quelle competenze di cittadinanza critica e attiva «che ci avrebbero poi permesso di difenderci dai padroni, dal figlio del dottore, dalle classi dominanti»[54]. Il principio etico  della scuola è catturato dal motto inciso su una delle pareti. Scritto in inglese – I Care – costituisce un antidoto alle pratiche educative dominanti in cui l’individualismo, i risultati e la selezione erano sintomatici di un sistema che riproduceva le culture dominanti e le relazioni asimmetriche di potere sulla base di specifiche linee di classe, di genere e linguistiche. Di contro la cura condivisa prende forma didatticamente nel tutoraggio tra pari, nella disposizione flessibile e circolare degli ambienti, che favoriva l’apprendimento cooperativo e l’arte dell’ascolto reciproco, trasformando gli studenti in studenti-insegnanti. Altro elemento distintivo è dato dal tempo, percepito in funzione inclusiva: la comunità scolastica era disposta a rallentare il ritmo per non lasciare indietro nessuno, valorizzando le differenze di ognuno, ingrediente essenziale della formazione umana e dello sviluppo democratico.

La centralità del linguaggio diventa più evidente a Barbiana. Milani conduceva sessioni di lettura di una o tre ore al giorno, destinate ad affinare l’uso della lingua italiana da parte degli studenti e a fornire loro uno sfondo per comprendere il mondo dal punto di vista degli oppressi. Per Milani chi non era in grado di leggere e comprendere la prima pagina del giornale veniva condannato a una vita di subordinazione. Anche i libri venivano letti ad alta voce. Tra i vari libri letti, uno dei suoi studenti ricorda l’autobiografia di Gandhi, Apartheid di Angelo Boca e le lettere di Claude Eatherly[55]. Anche i dialoghi platonici erano una delle letture preferite a Barbiana[56], così come i Quaderni del Carcere di Gramsci[57]. Come per i giornali, la lettura dei libri aveva lo scopo di stimolare il pensiero critico e di far conoscere agli studenti l’italiano. Alcuni libri richiedevano diverse settimane per essere letti, poiché poteva bastare una frase per stimolare una lunga discussione.

4.    Eredità pedagogiche per maturare la libertà di espressione

Concludendo, le riflessioni a partire dalle esperienze educative di Rosmini e Milani, possiamo ricollocare e rileggere la loro eredità nel tracciato di un “alveo storico” comune – dunque nella principale tradizione pedagogica italiana, che ha il suo momento di avvio nel Risorgimento Italiano, nel cuore del XIX secolo, con Rosmini, e che prosegue, tra gli altri, con Giovanni Bosco, Maria Montessori e giunge a Lorenzo Milani[58] –, con le relative indicazioni di natura teorico-pratica di lunga durata che mantengono significative risonanze nel contesto odierno.

In questo senso possiamo individuare alcuni “indicatori pedagogici” – presenti e significativi sia in Rosmini che in Milani, seppure con intensità differenti – come notato in studi recenti:[59] in primo luogo si può intravedere in entrambi un tensione emancipatrice nella concezione dell’impegno educativo: Rosmini e Milani considerano l’agire educativo come chiave della dialettica di libertà/liberazione, in riferimento alla dignità̀ dell’essere umano. Da questo segue come diretta conseguenza un approccio filosofico educativo nel quale si pone attenzione all’umano inteso secondo la categoria della persona, considerato quindi integralmente in tutte le sue dimensioni (compresa la dimensione religiosa) e nel concreto dispiegarsi delle sue potenzialità̀ personali; ciò significa altresì che l’educazione si fa processo liberante e prorompente per lo sviluppo personale. Per dare conto di questa libertà dell’educazione personale, come terzo aspetto, la prospettiva scolastica si connette necessariamente alla libertà di insegnamento, intesa come categoria autentica di quell’espressività relazionale che si innesta nei processi educativi. Tale libertà prende corpo in entrambi gli autori in forme specifiche e autonome di istituzioni scolastiche formate dal basso, da non intendere in opposizione alla scuola statale in quanto tale, bensì̀ contro le sue forme specifiche di un dato momento storico. Infine, il processo di attuazione della libertà personale prende corpo didatticamente ed educativamente attraverso la sollecitazione della Parola, dei testi scritti e letti, che consentono l’elaborazione delle esperienze e i passaggi dall’educazione sensoriale a quella intellettuale e portano, attraverso l’educazione al pensiero critico, alla formazione di coscienze sociali e civili.

 

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Pour citer cet article
Référence électronique : Paolo Bonafede Federico Rovea, “Libertà di espressione ieri e oggi in Italia : questioni educative tra Rosmini, Milani e la scuola del merito” Educatio [En ligne], 14| 2024. URL : https://revue-educatio.eu

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[1] Allinterno di una cornice condivisa, Federico Rovea ha scritto 1.1 e 2.2 ; Paolo Bonafede 1.2, 2.1, 2.3, 3 e 4.

[2] J. B. Bury, A history of freedom of thought, Cambridge UP 1913.

[3] Il neologismo è stato riconosciuto dal vocabolario Treccani. Si veda

https://www.treccani.it/vocabolario/democratura_res-3a7baa29-8997-11e8-a7cb-00271042e8d9_%28Neologismi%29/

[4] https://rsf.org/en/index

[5] D. Finkelstein, A. McCleery, An Introduction to Book History, New York, Routledge 2013.

[6] Per quella istituzionale, come detto, occorrerà attendere la fine del primo conflitto mondiale.

[7] L. Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Roma, Donzelli ed., 1997.

[8] A.M. Banti, P. Ginsborg (eds.), Storia d’Italia, Annali, 22° vol., Il Risorgimento, Milano, Einaudi 2007.

[9] Ivi.

[10] http://www.dircost.unito.it/cs/docs/cisalpina1797.htm

[11] https://www.astrid-online.it/static/upload/eprs/eprs_liberta-espressione_it.pdf

[12] https://www.quirinale.it/allegati_statici/costituzione/Statutoalbertino.pdf

[13] https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/parte-i/titolo-i/articolo-21

[14] https://www.treccani.it/enciclopedia/liberta-di-manifestazione-del-pensiero

[15] Sull’opportunità o meno di utilizzare questo termine e sui dettagli della sua definizione la letteratura è sterminata. Scegliamo qui di utilizzarlo per indicare la penetrazione di un modello manageriale-capitalista in ambiti della vita associata ad esso tradizionalmente esterni, come la vita privata, la famiglia o la scuola. Non essendo questo il luogo per un approfondimento esteso, ci limitiamo a segnalare alcuni testi che toccano la questione. Per un’introduzione al neoliberalismo come indirizzo del pensiero economico si veda  G. Leghissa, Neoliberalismo. Unintroduzione critica. Mimesis, Milano 2013; mentre per panoramiche sulla piega pedagogica del neoliberalismo si può vedere H. Giroux, Neoliberalism’s War on Higher Education. Haymarket Books 2014.

[16] Di nuovo, per amor di brevità ci siamo limitati a tre momenti molto recenti e a riforme che coinvolgono in maniera preponderante le scuole superiori. Per quanto riguarda le scuole medie e soprattutto le elementari occorrerebbe impostare il discorso in maniera diversa.

[17] https://noi-italia.istat.it/pagina.php?id=3&categoria=5&action=show&L=0

[18] https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/Indicazioni+nazionali+e+nuovi+scenari/

[19] Si può leggere un’appassionata ricostruzione di alcuni momenti importanti della storia recente della scuola italiana attraverso gli occhi dei maestri e delle maestre che vi hanno lavorato in F. Lorenzoni, Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli, Palermo, Sellerio, 2023.

[20] M. de Certeau, Lo straniero o lunione nella differenza, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

[21] Si tratta inoltre per entrambi di un anniversario, questo 2023, che vale la pena ricordare: per Rosmini della pubblicazione della prima opera pedagogica, di carattere catechetico, dal titolo Delleducazione cristiana, pubblicata nel 1823; per Milani invece ricorre il centenario della nascita.

[22] F. De Giorgi, Storia della pedagogia, Brescia, Scholé 2021.

[23] La storia delle ostilità contro Rosmini è infatti intimamente connessa con l’espressione del suo pensiero:  le accuse di carattere filosofico e teologico sono infatti all’origine della questione rosminiana, iniziata nel 1841 e proseguita durante la vita dell’autore; si veda al riguardo S. Zanardi, La filosofia di Antonio Rosmini di fronte alla Congregazione dell’Indice, Milano, Franco Angeli 2018. In seguito al fallimento della missione romana, nel biennio 1848-49, nella quale Rosmini fece da emissario del Regno del Piemonte per il progetto politico di indipendenza e costituzione di una confederazione di Stati italiani, le accuse al pensiero filosofico ed ecclesiologico si inasprirono, e gli attacchi di autori gesuiti portarono alla messa all’Indice, nel 1849, delle due operette, pubblicate l’anno prima, La Costituzione secondo la giustizia sociale e Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa. L’insieme degli scritti di Rosmini fu quindi oggetto di un esame approfondito da parte della Congregazione dell’Indice, ma nel 1854 venne resa pubblica la dichiarazione con cui si affermava l’ortodossia del pensiero rosminiano; al riguardo L. Mauro, Quando un filosofo si dà alla politica: Rosmini nel biennio 1848-49, «Rosmini studies», 8/2021, pp. 55-68. La polemica però non cessò neanche dopo la sua morte nel 1855, poiché la pubblicazione postuma di altre opere rimaste incompiute, come la Teosofia, riaccese le critiche delle fazioni clericali reazionarie. Si giunse così, nel 1888, ad un decreto del Sant’Uffizio (Post-Obitum) che condannava 40 proposizioni contenute nei testi di Rosmini. Da allora e per lungo tempo il rosminianesimo fu guardato con sospetto e fu emarginato. Solo il Concilio Vaticano II, del cui magistero Rosmini apparve un precursore, avviò a definitiva soluzione la questione, risolta compiutamente solo all’inizio del ventunesimo secolo.

[24] L. Prenna, Dall’essere all’uomo. Antropologia dell’educazione nel pensiero rosminianao, Roma, Città Nuova, 1979.

[25] A. Rosmini, Del principio supremo della Metodica, in Scritti Pedagogici, Stresa, Sodalitas 2009, n. 193.

[26] A. Rosmini, Il linguaggio teologico, ECN, Roma, Città Nuova 1975.

[27] M. Develay, De l’apprentissage à l’enseignement, Paris, ESF éditeur, 1992.

[28] A. Rosmini, Il linguaggio teologico, p. 23.

[29] A. Rosmini, Il linguaggio teologico, p. 27.

[30] A. Rosmini, Il linguaggio teologico, p. 25.

[31] Si parla di Del principio supremo della Metodica, 1839-40, anch’essa incompiuta e postuma. Sul testo e sulla sua disamina si rimanda a P. Bonafede, L’altra pedagogia di Rosmini. Dilemmi, occultamenti, traduzioni, Trento, Università degli studi di Trento, 2019.

[32] A. Rosmini, Il linguaggio teologico, p. 34

[33] Lo stesso Magistero ecclesiale per l’Autore mostra come la Rivelazione di Cristo sia stata assimilata e comunicata in modi differenti, in virtù di autori, tempi storici, etc.

[34] A. Rosmini, Il linguaggio teologico, p. 50

[35] P. Pagani, I fondamenti dell’educazione secondo Rosmini, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 29/2022, pp. 7-32

[36]«Qualsiasi questione politica dev’essere considerata prima di tutto dal lato della giustizia». A. Rosmini Della libertà d’insegnamento, in  Scritti Pedagogici, Stresa, Sodalitas 2009, p. 71.

[37] pePr Rosmini la persona è “diritto sussistente”, fondamento e fine della società civile, e nasce con determinati diritti ai quali corrispondono specularmente altrettanti doveri. A. Rosmini, Filosofia del diritto, ECN, Roma, Città Nuova 2012.

[38] A. Rosmini Della libertà d’insegnamento, pp. 72-73.

[39] A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, ECN, Roma, Città Nuova, 1984.

[40] Il termine onesto è da intendere come traduzione del latino honestum (autentico) la cui radice è comune al termine honustas (bellezza). Il bonum honestum era, infatti, per i latini, e poi per gli scolastici, il bene morale, distinto dal bonum utile (l’utile) e dal bonum delectabile (il bene piacevole).

[41] A. Rosmini Della libertà d’insegnamento,  p. 72.

[42] A Milano dal 1930, Lorenzo sperimenta un modello scolastico che portava gli studenti ad assimilare l’ideologia fascista. Lorenzo rivisita gli anni della scuola in Lettera ai giudici, un documento scritto verso la fine della sua vita, in risposta all’accusa di istigazione al reato di diserzione e disobbedienza militare.

[43] B. Becchi,, Lassù a Barbiana ieri e oggi. Studi, interventi, testimonianze su don Lorenzo Milani, Firenze, Polistampa, 2004.

[44] L’atteggiamento critico e radicale che caratterizza gli anni del seminario (1943-47) è il preludio di una vita pastorale caratterizzata dall’ossessione per la coerenza e dall’impegno totale per una visione e un progetto dedicato alla liberazione degli ultimi. In prossimità dell’ordinazione, Lorenzo rinuncia all’eredità di famiglia, un gesto profondamente simbolico di come vuole vivere i suoi anni pastorali.

[45] All’epoca delle decisioni più radicali di Lorenzo, Firenze era ricca di progetti che riguardavano la pace e la giustizia sociale. Alcuni di questi progetti erano guidati da cattolici radicali come don Primo Mazzolari, Giorgio La Pira, don Bruno Borghi, Ernesto Balducci, Aldo Capitini.

[46] L. Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957.

[47] Corzo, J. L., Alla Scuola della Parola. Analisi teologico-spirituale degli scritti di don Lorenzo Milani”, in R. Sani and D. Simeone (Eds.), Don Lorenzo Milani e la Scuola della Parola. Analisi storica e prospettive pedagogiche Macerata: Edizioni Università di Macerata, 2011.

[48] A. Bencivinni,. Don Milani. Esperienza educativa, lingua, cultura e politica, Roma, Armando, 2004.

[49] D. Simeone, Verso la Scuola di Barbiana. Lesperienza pastorale educativa di don Lorenzo Milani a S. Donato di Calenzano, San Pietro in Cariano (Verona): Il Segno dei Gabrielli Editori, 1996.

[50] Tre dei suoi studenti di San Donato – Mario Rosi, Ferruccio Francioni e Benito Ferrini – hanno riportato come Don Milani spiegasse una parola in ogni suo dettaglio: la sua provenienza; come può essere usata in diverse circostanze; le sue sfumature di significato; come si traduce in diverse lingue; e altre parole che derivano da essa. Su questo si rimanda a N. Fallaci, Vita del Prete Lorenzo Milani. Dalla parte dellultimo, Milano, Rizzoli, 1993.

[51] Il 6 dicembre 1954, poco dopo la morte di don Pugi e dopo sette anni di sacerdozio, don Milani arrivò nella sua nuova parrocchia, Sant’Andrea a Barbiana, frazione situata sulle colline del Mugello popolata da famiglie di contadini e operai. L’“esilio di Barbiana”  doveva mettere a tacere e isolare Milani, perché l’approccio pastorale radicale di Milani a San Donato disturbò diversi parrocchiani, presbiteri nelle vicinanze e le autorità ecclesiastiche di Firenze.

[52] Lo spazio fisico della scuola consisteva in quattro stanze: due all’interno del priorato e due laboratori dedicati rispettivamente alla lavorazione del legno e dei metalli. La scuola fu fondata pochi giorni dopo l’arrivo di Milani nel 1954. Non apparteneva al sistema scolastico statale. Infatti, è stata definita privata, il che significa che non riceveva alcun sostegno finanziario dallo Stato. Milani non applicava tariffe.

[53] M. Gesualdi, (ed.) Scuola di Barbiana. Lettera a Une Professoressa. Quarntanni dopo, Firenze,  Libreria Editrice Fiorentina, 2007.

[54] B. Kleindeinst, Addio Barbiana. France, Cinema Guild, 1994, p. 64.

[55] E. Martinelli, Don Lorenzo Milani. Dal motivo occasionale al motive profondo. Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2007.

[56] Centro Formazione e Ricerca Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana, Socrate e Don Lorenzo Vicchio: Centro Formazione e Ricerca Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana, 2008.

[57]  Nonostante l’assenza di influenze marxiste nelle opere di Milani, è interessante notare che quanto scritto in Esperienze Pastorali e quanto scritto dagli otto ragazzi nella Lettera anticipano o riprendono le argomentazioni di sociologi e filosofi francesi e sociologi inglesi e americani, alcuni dei quali di orientamento neo-marxista, riguardo ai temi della scuola borghese e del suo ruolo nella riproduzione sociale (Althusser, Poulantzas, Boudon, Baudelot, Establet, Bowles, ecc.)

[58] F. De Giorgi, Il Metodo italiano nelleducazione contemporanea. Rosmini, Bosco, Montessori, Milani, Brescia, Scholé 2023.

[59] Ivi, pp. 255-256.